Il Discorso sul Grande Scioglimento Finale

Mahā Parinibbāna Sutta (DN 16)

Introduzione

Nibbāna, in origine, era la parola pāli che indicava lo spegnersi di un fuoco. Il Buddha la adottò come uno dei nomi per indicare la meta del suo insegnamento, in accordo con la concezione del fuoco prevalente nel suo tempo: un fuoco acceso era visto come qualcosa che si aggrappa al proprio combustibile, in uno stato di agitazione ardente. Quando si spegne, lascia andare il combustibile e raggiunge uno stato di liberazione, raffreddamento e pace. Queste erano dunque le principali associazioni legate a questo termine quando veniva applicato al fine ultimo del sentiero buddhista. Alla luce di questa comprensione del fuoco, il termine nibbāna sembrerebbe derivare etimologicamente dal prefisso negativo nir- unito alla radice vāṇa, cioè “legame”: slegamento, scioglimento. L’aggettivo correlato è nibbuta: sciolto, libero da legami. Il verbo associato, nibbuti: sciogliere, liberare dai vincoli.

Parinibbāna — lo scioglimento totale — assume due significati distinti nei testi canonici. Da un lato, indica lo scioglimento che si verifica nel momento del pieno risveglio, sia per il Buddha sia per uno dei suoi discepoli arahant. Dall’altro, designa lo scioglimento che avviene con la morte di un essere completamente risvegliato, quando non vi è più rinascita. Nel titolo di questo sutta, il termine assume proprio questo secondo significato, riferito alla morte del Beato. La parola mahā, “grande”, nel titolo del sutta modifica sia parinibbāna che sutta: in altre parole, suggerisce sia che questo discorso è lungo — è infatti il più lungo dell’intero Canone pāli — sia che la morte del Buddha rappresenta il più significativo tra tutti i parinibbāna nella tradizione buddhista.

Il sutta narra gli avvenimenti dell’anno che precedette il parinibbāna del Buddha e delle settimane immediatamente successive. In alcuni passaggi — in particolare negli eventi che precedono la sua dipartita — il racconto assume un tono relativamente diretto, riportando una sequenza piuttosto realistica di accadimenti occasionali. Tuttavia, il corpo principale del sutta rivela segni evidenti di una selezione e una composizione intenzionali. Sappiamo, da altri brani del Canone, che non tutti i grandi eventi di quel periodo sono stati inclusi in questo resoconto. Il Venerabile Sāriputta, ad esempio, compare nella Parte I del sutta, ma il Cunda Sutta ci informa che egli morì prima del Buddha, e che il Beato si trovava a Sāvatthī quando ricevette la notizia — eppure né la morte di Sāriputta né il luogo in cui essa fu appresa sono menzionati nel presente testo. Allo stesso tempo, lo stile del racconto segue molte delle convenzioni della prosa e della poesia letteraria dell’antica India, con l’intento di suscitare un profondo rasa, un gusto emotivo capace di meravigliare e toccare il cuore.

Due preoccupazioni principali sembrano aver determinato la struttura del racconto, entrambe comuni a ogni memoriale: il desiderio (1) di mostrare che la persona commemorata era degna di amore e rispetto, e (2) di indicare l’importanza di continuare a vivere secondo le buone tradizioni che quella persona ha stabilito.

Entrambe queste preoccupazioni sono racchiuse nell’episodio scelto per aprire il sutta: l’impeto emotivo del re Ajātasattu riguardo ai suoi piani d’invasione contro i Vajjiani, e la sua richiesta al primo ministro Vassakāra di consultare il Buddha a tale proposito. C’è un’ironia sottile nel presentare un re spiritualmente cieco che si rivolge al Buddha per ricevere consigli su una guerra, ma l’episodio veicola diversi insegnamenti di grande rilievo. Innanzitutto, mostra che il Buddha era rispettato anche dai membri più eminenti della società. La risposta indiretta del Buddha alla richiesta del re porta infine a evitare un conflitto, rivelando come egli sapesse usare la propria influenza in modo nobile e saggio. Tuttavia, la conoscenza degli eventi successivi — Vassakāra e Ajātasattu riuscirono infine a sconfiggere i Vajjiani senza spargimento di sangue, minando le loro buone tradizioni — sottolinea una verità profonda: le buone tradizioni non si mantengono da sole, poiché nel mondo esistono forze pronte a smantellarle. Lo stesso Buddha traccia un parallelo tra le buone tradizioni formate da i Vajjiani — che essi non seppero preservare — e quelle che aveva trasmesso al Saṅgha. Il punto è chiaro: anche se il Buddha ha posto il Saṅgha su solide fondamenta, la sua sopravvivenza richiede una vigilanza costante da parte dei membri che rimangono.

Così, se da un lato l’episodio iniziale afferma come dato acquisito la prima delle due preoccupazioni del sutta — ossia che il Buddha è indubbiamente degno del più alto rispetto — dall’altro lascia aperta la seconda questione: la sopravvivenza del suo insegnamento. In questo modo, il testo mette in allerta e ispira qualunque ascoltatore sincero, ricordandogli che tale responsabilità ricade ora sulle sue spalle.

Queste due preoccupazioni guidano la composizione di tutte le sezioni successive del racconto.

Per mostrare che il Buddha era degno di rispetto, i compilatori del sutta proseguono seguendo la doppia strategia introdotta nell’episodio iniziale: da un lato, mostrando direttamente il nobile carattere del Buddha attraverso le sue parole e le sue azioni; dall’altro, mostrando indirettamente come coloro che erano a loro volta degni di stima gli rendessero omaggio.

Nel presentare direttamente il Buddha, il racconto pone un’enfasi primaria sulla sua capacità di maestro — un essere dotato di una perfetta padronanza del Dhamma, di una memoria prodigiosa e di una volontà instancabile nel trasmettere ciò che conosce. Il sutta mette inoltre in risalto la sua eccellenza come meditatore, sia nella padronanza della concentrazione (come emerge nel dialogo con Pukkusa Mallaputta e nella sua ultima manifestazione dei livelli meditativi prima della morte), sia nella padronanza dei poteri psichici che scaturiscono dalla concentrazione: egli vede i deva, visita i loro cieli senza rivelare la propria identità, attraversa fiumi all’istante, prevede eventi futuri, ricorda vite passate, legge la mente altrui. Mostra inoltre un dominio assoluto sul momento della propria morte: supera la penultima malattia, sceglie consapevolmente quando e dove morire, e naturalmente, si congeda in modo tale da non rinascere mai più.

Per quanto riguarda le sue qualità più personali, il racconto ritrae la grande forza d’animo del Buddha di fronte alle sue ultime due malattie — in particolare, il fatto che, nonostante un grave attacco di dissenteria, percorse a piedi un’intera giornata fino al luogo in cui avrebbe preso dimora per l’ultima volta. Allo stesso tempo, nel giorno della sua morte, manifesta profonda gentilezza e gratitudine: si prende il tempo di confortare il Venerabile Ānanda, suo devoto attendente, e Cunda, il laico che gli offrì l’ultimo pasto; fa in modo che i Malliani siano avvisati affinché possano rendergli omaggio; istruisce un ultimo discepolo, Subhadda; e, poco prima di passare oltre, si rende ancora disponibile a rispondere a qualsiasi domanda non ancora chiarita.

Per quanto riguarda le modalità con cui viene reso onore al Buddha, spiccano anzitutto gli eventi miracolosi disseminati nel racconto, i quali mostrano come perfino le forze della natura gli rendessero rispetto: un fiume torbido si schiarisce affinché egli possa bere la sua acqua; la pira funebre si accende spontaneamente solo dopo che il suo grande discepolo, il Venerabile Mahā Kassapa, è giunto per rendergli omaggio.

Re, ministri e principi si contendono il privilegio di tributargli onori, e perfino i deva si mostrano impazienti di offrire il proprio rispetto.

Nel mostrare come queste figure rendano omaggio al Buddha, il sutta ha insegnato, per molte generazioni di buddhisti, le forme di etichetta e devozione più appropriate. Cinque aspetti, in particolare, si distinguono con chiarezza:

(a) La forma più comune di rispetto è l’atto di circumambulare al momento di congedarsi dalla presenza del Buddha. Questo gesto è divenuto la modalità tradizionale per onorare le sue reliquie e gli stūpa, ossia i monumenti commemorativi che le custodiscono.

(b) Quando, nella Parte V, i deva desiderano contemplare l’“Occhio”, essi danno continuità a un’antica tradizione indiana, risalente ai tempi vedici, secondo la quale un essere sacro è visto come un “occhio onniveggente” — uno degli epiteti attribuiti al Buddha nella prima poesia pāli — e l’atto di fissare tale occhio è considerato di buon auspicio. Nei secoli successivi, divenne pratica comune meditare fissando l’immagine del Buddha o i suoi occhi scolpiti.

(c) Quando i Malliani pronunciano ad alta voce i propri nomi mentre rendono omaggio finale al Buddha, proseguono anch’essi un’antica tradizione indiana, affermando senza vergogna il proprio onore nell’inchinarsi dinanzi al Beato. Questo gesto portò, in seguito, alla consuetudine di iscrivere il proprio nome sugli oggetti donati agli stūpa, anche se questi venivano collocati in luoghi dove l’iscrizione non era visibile. Il gesto di apporre il proprio nome su un’offerta è rimasto vivo nel mondo buddhista fino ai giorni nostri.

(d) Quando, dopo la morte del Buddha e poi ancora dopo la cremazione, i Malliani venerano il suo corpo con danze, canti, musica, ghirlande e profumi, creando drappi cerimoniali e composizioni floreali, essi pongono le basi per i festival degli stūpa, che sarebbero divenuti celebri e diffusi in tutta l’Asia buddhista.

(e) E naturalmente, quando è lo stesso Buddha a descrivere come dovrebbero svolgersi le sue esequie e come dovrebbero essere visitati e contemplati gli stūpa, il sutta getta le fondamenta dell’intero culto degli stūpa e delle pagode.

Come afferma il Buddha stesso in questo testo, lo scopo di tale contemplazione non è soltanto quello di rendere omaggio, ma anche di generare un senso di saṁvega — un’urgenza spirituale mista a turbamento — di fronte all’impermanenza e all’instabilità della vita. Nell’analisi buddhista delle emozioni, il saṁvega è una delle motivazioni fondamentali per la pratica, soprattutto quando è accompagnato da pasāda, la fiducia serena che la via indicata conduce alla liberazione da tale instabilità. Nel suscitare entrambi questi sentimenti — saṁvega e pasāda — il sutta intende ispirare chi ascolta o legge ad assumere come propria la seconda grande preoccupazione che attraversa il testo: la necessità di preservare e proseguire le buone tradizioni buddhiste, sia per il proprio beneficio individuale, sia per il bene comune.

In vista di questo scopo, il sutta narra molte delle istruzioni che il Buddha stesso impartì su come mantenere viva, a lungo, la vita del Dhamma e del Saṅgha. All’inizio del discorso, egli offre diverse serie di indicazioni su come il Saṅgha possa rimanere unito e armonioso. Anziché nominare una singola persona come suo successore, il Buddha indica come suo erede il Dhamma e il Vinaya che ha insegnato ed esposto. Allo stesso tempo, stabilisce dei criteri per riconoscere e custodire correttamente questi insegnamenti: identifica le Ali del risveglio (bojjhaṅgā) come nucleo centrale della sua dottrina e afferma che ogni insegnamento attribuito a lui deve essere valutato non in base all’autorità di chi lo trasmette, ma alla sua coerenza con ciò che è già riconosciuto come autentico e conforme alla retta via.

Per quanto riguarda i singoli praticanti, il Buddha sottolinea la necessità di prendere rifugio nel Dhamma, interiorizzandolo a tal punto — attraverso le quattro fondazioni della consapevolezza (satipaṭṭhāna) — da poter trovare rifugio in se stessi. Offre inoltre uno “specchio del Dhamma”, grazie al quale ciascuno può valutare fino a che punto è riuscito a stabilire in sé quel rifugio.

La ricerca del bene comune e di quello individuale si intrecciano: quando i singoli monaci praticano rettamente, il mondo non sarà mai privo di arahant.

Una delle ironie istruttive del sutta è il modo in cui, verso la fine, le sue due principali preoccupazioni entrano in conflitto: re e brāhmani diventano così desiderosi di ottenere le reliquie del Buddha che dimenticano i suoi insegnamenti e quasi arrivano alla guerra. Sappiamo, dalla storia del buddhismo, che la dimensione devozionale ha spesso messo in pericolo la pratica in altri modi. Più volte, monaci a capo di centri votivi hanno ostacolato la vita dei monaci della foresta; e i monasteri della foresta, con il passare delle generazioni, si sono talvolta trasformati anch’essi in centri di devozione. Per risolvere questo conflitto, il sutta propone una posizione di compromesso, illustrata in modo chiaro dalla risposta del Buddha alla venerazione dei deva nella sua ultima notte: da un lato, egli onora il loro desiderio di contemplarlo chiedendo al suo attendente monaco di spostarsi per non ostruire la vista; dall’altro, dichiara ad Ānanda che la forma più autentica di venerazione è praticare il Dhamma secondo il Dhamma. In questo modo, egli lascia spazio alle espressioni esteriori di devozione, pur subordinandole alla pratica del Dhamma come via verso la liberazione completa.

Il Venerabile Mahā Kassapa, che compare alla fine del sutta, incarna pienamente la figura monastica ideale in cui si uniscono i due grandi ideali del testo. Famoso sia per la sua intensa devozione verso il Buddha sia per la sua rigorosa pratica ascetica, dimostra che questi due aspetti non devono necessariamente entrare in conflitto. La parte conclusiva della narrazione allude anche al ruolo che egli assunse in seguito, facendo propria la preoccupazione del Buddha per la sopravvivenza del Dhamma e del Vinaya, che sarebbero divenuti i veri maestri del Saṅgha dopo la sua scomparsa. Il Cullavagga XI ci racconta che le parole pronunciate da un anziano monaco dopo il parinibbāna del Buddha — e riportate in questo sutta — secondo cui il Saṅgha avrebbe finalmente potuto liberarsi dei continui ammonimenti del Beato su ciò che si doveva e non si doveva fare, furono ciò che spinse Mahā Kassapa a convocare il Primo Concilio per stabilire e trasmettere in modo unificato il Dhamma e il Vinaya. Egli comprese, da quelle parole, che le minacce alla sopravvivenza delle buone tradizioni lasciate dal Buddha non provenivano solo dall’esterno del Saṅgha, ma anche — e forse ancor più pericolosamente — dall’interno stesso. In tal modo, Mahā Kassapa mostra fino a che punto i membri del Saṅgha debbano essere pronti a spingersi per mantenere vivi i due ideali fondamentali del sutta.

Per quanto riguarda l’incarnazione laica ideale dei due grandi ideali, essa è rappresentata dal brāhmano Doṇa, che suddivide le reliquie del Buddha in modo equo e pacifico tra i numerosi pretendenti. In tal modo, mostra anche ai laici buddhisti che essi possono avere un ruolo attivo nel preservare e trasmettere le buone tradizioni fondate dal Buddha. Proprio come il sutta si apre con il Buddha che previene un conflitto armato, così si chiude con Doṇa che riesce ad evitarne uno, offrendo così una conclusione armoniosa che riflette gli stessi principi con cui l’insegnamento era cominciato.

Introduzione a cura di Thanissaro Bhikku

« IndietroAvanti »

Pagine