Come spesso accade con i testi di origine cinese, le transcreazioni possibili sono numerose. Tra le varie versioni, c’è quella commentata dal maestro Shunryu Suzuki pubblicata nel libro Rami d’Acqua Scorrono Nell’Ombra tradotta da Andrea Staderini.
La versione del Sandōkai qui riportata è quella commentata dal maestro Roland Yuno Rech nel libro “Roland Yuno Rech commenta i Sûtra Zen” tradotta da Ezio Tenryu Zanin e Silvia Binello (edizione a cura del Dojo Mokusho di Torino) dall’originale francese “Sûtras zen: Commentés et chantés”
Chi ha dimestichezza con il giapponese moderno, noterà che la lettura romaji riportata in corrispondenza dei versi non combacia con i caratteri cinesi. Questo è dovuto alla tradizionale interpretazione kundoku (訓読) dei testi classici di origine cinese. Nella lettura kundoku i caratteri vengono mentalmente riorganizzati dal lettore secondo la sintassi giapponese con l’aggiunta delle particelle grammaticali, pur tuttavia conservando la lettura arcaica di alcuni caratteri (per esempio: 有 viene letto “ari” invece che come il verbo essere “aru”).
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Introduzione
Anche se si sanno poche cose della vita di Sekitō, sappiamo che si è risvegliato leggendo: «Colui che diventa tutte le esistenze dell’universo, non è il vero Saggio?» Questa domanda presentata in un testo1 di un discepolo di Kumarajiva, fu il punto di partenza del suo Risveglio e, in seguito, ispirò la sua pratica e il suo insegnamento. Come diventare, con questo corpo e questa esistenza limitati, colui che è uno con tutte le esistente dell’universo? Diventare uno con tutto l’universo è il cuore del Risveglio di Śakyamuni Buddha e dell’insegnamento di Kodo Sawaki e del Maestro Deshimaru che parlava di armonizzarsi con l’ordine cosmico. È a partire da questa frase che Sekito compose il Sandōkai. Qual è la sfida di ritrovare l’unità con tutto l’universo? È di imparare a vivere in armonia con l’ordine cosmico, ossia con la realtà così com’è. Noi non siamo mai separati da tutte le esistenze dell’universo ma siamo governati da un funzionamento del mentale che è condizionato ad individuare le differenze e a separare. Per la sua sopravvivenza ogni essere vivente deve essere capace di fare delle distinzioni tra ciò che è buono per lui e ciò che è nocivo, è insito nel processo stesso della vita. Tuttavia, se si rimane rinchiusi nel funzionamento dualista, ogni lato della nostra unità di nascita con la realtà ci sfugge. È questa realtà «così com’è» che ogni vera pratica spirituale cerca di ritrovare. Questa poesia dalla forma sobria, è un testo fondante della nostra tradizione zen Sōtō. È ritmata in gruppi di cinque ideogrammi. Elaborando la domanda sulla differenza e l’identità, circoscrive una domanda ricorrente nel buddhismo: «Come possono le cose, gli esseri, i fenomeni, essere al tempo stesso completamente unici, reali, e vuoti di sostanza propria, essendo semplici prodotti dell’interdipendenza?» E poi: «Come armonizzarci con questo nella nostra vita quotidiana?»
«Vuoto di sostanza propria» significa che nulla esiste di per sé stesso, che tutti i fenomeni sono vacuità. Ma la vacuità non è separata dai fenomeni, l’esperienza reale dall’esistenza indica che non c’è l’ombra di differenza tra l’essenza della nostra vita e la nostra vita stessa. Possiamo incontrare questa realtà dappertutto, in tutti i fenomeni che costituiscono il nostro corpo, lo spirito e la vita di tutti i giorno, l’ambiente. Quindi, il senso della nostra vita non è da ricercare in un al di là, ma nella vita stessa, così come scorre istante per istante, giorno per giorno.
La prima volta che ho incontrato il Maestro Deshimaru gli posi la domanda: «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla? Perché non c’è semplicemente la vacuità, kū (空), il nulla? Perché bisogna che ci siano dei fenomeni, delle esistenze, delle nascite e delle morti, ecc.?» Egli mi rispose immediatamente: «Non devi vedere solamente i rami e le foglie ma anche la radice.» È esattamente il tema centrale che Sekitō ha sviluppato nel Sandōkai: non vedere solamente i fenomeni nella loro diversità, i rami e le foglie, ma la loro essenza comune: kū, la vacuità che è il principio fondamentale che regola tutte le esistente interdipendenti. Non c’è vacuità senza fenomeno. Non c’è fenomeno che non sia vuoto di sostanza permanente.
— Roland Yuno Rech
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