Note sulla Traduzione

La traduzione dello Shōbōgenzō qui presente è quella curata da Gudo Wafu Nishijima e Chōdo Cross, che propone una resa letterale, non interpretata, delle parole di Dōgen.

Nishijima stesso, a proposito dell’obiettivo che si pose per la traduzione, scrisse: «Mi piace una traduzione che costringa a tentare di indovinare il giapponese del Maestro Dōgen.»

Lo Shōbōgenzō fu composto nel XIII secolo in giapponese classico (文語, bungo, letteralmente “lingua scritta”), una forma di giapponese letterario utilizzata fino al XX secolo, caratterizzata da una grammatica arcaica e da un lessico profondamente influenzato dal cinese. Per questo motivo, pur restando leggibile, la struttura e il senso delle frasi possono risultare di difficile comprensione persino a un lettore giapponese contemporaneo. A tale complessità si aggiunge il tono poetico con cui Dōgen esprime la sua visione. Nishijima — uomo colto, laureato in giurisprudenza all’Università di Tokyo, la più prestigiosa del Giappone, che studiò con Kodo Sawaki e fu discepolo di Rempo Niwa Zenji — racconta come, da giovane, fosse affascinato da questo paradosso: un libro che era capace di leggere, ma il cui significato gli appariva sfuggente. Fu proprio questo a spingerlo a studiarlo approfonditamente nel corso dei decenni successivi.

In questo senso, il testo può essere affrontato come un kōan. Nel buddhismo Rinzai, ad esempio, la meditazione su un kōan è un mezzo volto a risvegliare il praticante a una verità che non può essere espressa attraverso il ragionamento logico, ma che, una volta realizzata, diviene esperienza diretta.

È per questa ragione che, tra le molte versioni disponibili dello Shōbōgenzō, ho scelto proprio questa: perché ritengo fondamentale confrontarsi con il testo così com’è, senza intermediari. Una spiegazione può illudere di aver compreso, ma non equivale ad aver realmente imparato.

Naturalmente, questa scelta apre anche la possibilità (e il pericolo) del fraintendimento. Brad Warner — erede nel Dharma di Nishijima — a questo proposito ha detto:

«Il pericolo nell’essere poetici è che si può diventare così poetici che nessuno capisce più cosa si stia cercando di dire. Il pericolo nell’essere troppo diretti è che si rischia di far credere alle persone che, se comprendono le parole che stai usando, allora comprendono la realtà stessa.

«A volte, quando leggo Dōgen, non ho idea di cosa stia cercando di esprimere. Questo non è un problema così grande nello Shōbōgenzō, perché i saggi sono più lunghi e, se non comprendo una frase, probabilmente troverò la stessa idea espressa altrove in modo diverso. Ma nei suoi scritti più brevi, come l’Eihei Kōroku, spesso non ho la minima idea di cosa voglia dire.

«Qualunque cosa tu dica sulla Realtà, non sarà mai al cento per cento vera. In realtà, qualunque cosa tu dica su qualsiasi cosa non sarà mai del tutto vera. Le parole hanno un’utilità limitata. Sono soltanto indicatori.»

Lo Shōbōgenzō non è un testo dottrinale, ma un’esplorazione diretta del Dharma da parte di Dōgen. I suoi discorsi pubblici, raccolti nello Zuimonki dal discepolo Koun Ejō, mostrano un Dōgen concreto, radicato nella vita quotidiana del tempio, e sono di tutt’altro tono. La complessità dello Shōbōgenzō fece sì che, dopo la morte di Dōgen, i suoi saggi circolassero poco o nulla: per quasi cinque secoli furono trascurati, e gli stessi discepoli non sapevano che farsene. Tra XVII e XVIII secolo, erano ormai quasi dimenticati e fu soltanto con l’opera di Menzan Zuihō (1683–1769), che ne curò la riscoperta e la sistematizzazione, che lo Shōbōgenzō riacquistò vitalità all’interno della tradizione Sōtō.

Leggete dunque lo Shōbōgenzō, ma poi lasciatelo andare. Forse non avreste mai dovuto leggerlo. Sedete in zazen, shinjin datsuraku.